Luigi Sperandei scrive di Silvio Pellico

LUIGI SPERANDEI

“L’Italia nel secolo XIX” – Letture per i giovinetti

Lanciano

R.Carabba, Editore

1904


 

Riportiamo qui di seguito un estratto dell’opera di Luigi Sperandei “L’Italia nel secolo XIX” del 1904 in cui parla di Silvio Pellico.

Ritratto di Silvio Pellico

Sezione I Storia – Quadro Generale

“Nato a Saluzzo il 21 giugno 1789, da onesti cittadini, seguì il padre in diverse città e finalmente si stabilì a Milano. Fin da giovinetto fu studiosissimo, amante delle belle lettere, e adulto strinse amicizia con i più celebri letterati del tempo. Come maestro e precettore entrò in casa del conte Porro, dove convenivano persone colte e intelligentissime, che stimavano e ammiravano Silvio Pellico, reso ormai noto per la pubblicazione della tragedia la Francesca da Rimini, la quale aveva fatto il giro di tutti i teatri. Chi in quei tempi non ripeteva i magnifici versi:

Per chi di stragi si macchiò il mio brando?

Per lo straniero. E non ho patria forse,

Cui sacro sia de’ cittadini il sangue?

Per te, per te, che cittadini hai prodi,

Italia mia, combatterò, se oltraggio

Ti moverà l’invidia. E il più gentile

Terren non sei di quanto scalda il sole?

D’ogni bell’arte non sei madre, o Italia?

Polve d’eroi non è la polve tua?

Agli avi miei tu valor desti e seggio,

E tutto quanto ho di più caro alberghi!

Scaldato di santo amor patrio, che esprimeva nel nostro idioma gentile, egli in verità non cospirò nessuno, né appartenne alla così detta setta de’ Carbonari, ma fu in relazione coi liberali, e sospirò per la riuscita della rivoluzione italiana, tanto che prese parte alla compilazione del giornale Il Conciliatore, che moderato, propugnava idee italiane. Soppresso il giornale, tutti i redattori dovettero pagare col carcere la loro collaborazione, e fra questi anche Silvio Pellico. Arrestato il 13 ottobre 1820 a Milano, e chiuso nel carcere di Santa Margherita, fu poi con altri condotto a Venezia nelle carceri di Stato, delle dei Piombi, perché fino dai tempi della repubblica avevano tetto di piombo. Quivi gli fu fatto il processo, che durò quasi due anni, con interrogatori lunghi, petulanti, fastidiosi. Non si venne a capo di nulla, perché nulla c’era da scoprire a carico di Silvio Pellico e de’ suoi compagni, fra i quali Pietro Maroncelli, ma questi due vennero condannati a morte. Letta tale sentenza in pubblico, sopra un palco, nella piazzetta dei dogi, fu poi seguita dalla grazia dell’imperatore, che commutava la pena per Maroncelli a 20 anni di carcere duro e per Silvio a 15. Tale pena doveva essere scontata nel più severo ergastolo della monarchia austriaca, allo Spielberg, in Moravia; e quando partirono per Venezia per essere racchiusi in quel tetro sepolcro di viventi, seppero che l’imperatore voleva che i giorni fossero contati di 12 ore, cioè la pena venne ridotta a metà. Ma con la catena ribadita ai piedi, costretti a fare noiosi lavori di maglia, vivere con magrissimo cibo e dormire su nude tavole, sette anni e mezzo (in tutto dieci, compreso il carcere prima sofferto) furono per il povero Silvio dolori, strazi continuati. Uscito nel 1830 scrisse e pubblicò il libro intitolato Le mie prigioni, nel quale descrive, senza acrimonia per nessuno, i mali sofferti. E’ un libro che fa piangere, e fu definito una gran battaglia vinta contro l’Austria, perché la lettura di quelle pagine bellissime risvegliò in tutti gl’Italiani un santo amore per la causa del riscatto e un sacrosanto orrore per le torture, che l’Austria infliggeva al libero pensiero. Leggetelo, giovinetti, questo bel libro,e verserete lagrime di tenerezza, apprendendo da esso quanti dolori ha costato ai nostri martiri la libertà. Leggetelo e sentirete scaldarvi il petto d’amore verso la terra che vi ha visto nascere e ha nutrito tanti eroi!”

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